I Segreti di Venezia: Il Banco del Giro, la moneta che non si vede – San Polo

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”. Più volte abbiamo attraversato insieme calli e sotoporteghi inseguendo echi di voci lontane: fantasmi di eroi garibaldini a Castello, pietre che ricordano la peste, amori nati tra maree e silenzi, ma oggi torniamo al cuore pulsante della città antica, là dove la ricchezza non si contava in monete tintinnanti ma in scritture di fiducia: li dove una chiesa può essere “divorata” dalle case.

Tra il mercato e il Canal Grande, il respiro del Bancogiro

Siamo a Rialto, nel luogo dove Venezia inventò la moneta che non si vede, e dove il denaro cominciò a viaggiare per “giro” — da un nome all’altro, senza mai lasciare la carta. Tra il profumo del pesce appena sbarcato nel vicino mercato e il vociare dei mercanti, nacque qui il Banco del Giro, l’istituzione che trasformò per sempre il modo di commerciare nel Mediterraneo.

Sotoportego del Bancogiro: il cuore invisibile dei pagamenti veneziani

Sotto le arcate che collegano il mercato di Rialto al Campo di San Giacometto, a pochi passi dal famoso “Gobbo”, ancora oggi sopravvive un nome inciso nella pietra: Sotoportego del Banco Giro. In questo spazio, dove il brusio del mercato si mescolava al suono delle monete e dei passi dei mercanti, si trovava il banco pubblico istituito dalla Serenissima nel 1619. Il toponimo non è un semplice ricordo: è una traccia viva del primo sistema bancario di Stato veneziano, dove il denaro non circolava fisicamente, ma “girava” da un conto all’altro.
Le arcate, un tempo presidiate da banchieri e notai, rappresentavano il confine tra il commercio materiale del mercato e quello immateriale del credito — il luogo in cui la fiducia diventava moneta.

Dal Banco della Piazza al Banco del Giro: nascita di una banca pubblica

Già dal 1587, nel cuore di Rialto, funzionava il Banco della Piazza di Rialto, istituito per regolare i pagamenti dei mercanti che animavano la più grande piazza commerciale del Mediterraneo. Nel 1619, la Serenissima fondò il Banco del Giro, con un’innovazione: un sistema di trasferimento contabile interno, senza necessità di spostare denaro contante.
Giro” significava appunto il passaggio da un conto a un altro mediante semplice registrazione. Il banco nasceva in un’epoca in cui Venezia, pur avendo perso parte della potenza marittima, restava un centro finanziario cruciale, dove il denaro assumeva la forma di scrittura e fiducia — anticipando concetti moderni come il bonifico o il conto corrente.

sotorpotego del banco giro naranzaria rialto

La moneta che non si vede: il credito come architettura della fiducia

Il Banco del Giro non prestava denaro come una banca privata: custodiva depositi e registrava passaggi di credito. Ogni trasferimento avveniva “per scrittura”, senza oro né argento, riducendo i rischi di furti e fluttuazioni. Era un sistema di pagamento pubblico, garantito dallo Stato veneziano, che offriva sicurezza e rapidità alle transazioni tra mercanti.
La “moneta di banco” divenne un riferimento di stabilità e fiducia, tanto che gli scambi internazionali la accettavano come garanzia. Nel Sotoportego del Bancogiro, ogni mattina, si incontravano commercianti greci, tedeschi, levantini e veneziani per regolare affari che andavano ben oltre la laguna: un microcosmo di economia globale ante litteram.

Il Banco del Giro e i “Banchi” del Ghetto: due anime del credito veneziano

Mentre il Banco del Giro operava sotto la tutela dello Stato, nel Ghetto di Venezia agivano i cosiddetti banchi ebraici, concessi in gestione a famiglie israelitiche con funzioni di credito su pegno.
Questi banchi erano distinti da tre colori simbolici: Banco Verde e Banco Nero, istituzioni successive o collegate a diversi gruppi familiari, anch’essi operanti nel sistema del pegno.
I colori derivavano dalle insegne dipinte sulle porte dei banchi, e non da motivazioni religiose o etniche. Il Banco del Giro rappresentava invece la fiducia dei grandi commercianti, regolato dal Senato e pensato per la circolazione dei capitali tra Stati e mercanti;
i Banchi del Ghetto servivano le classi medie e popolari, fornendo liquidità immediata. Due mondi opposti ma complementari: uno fondato sulla scrittura contabile, l’altro sull’oggetto realedue forme diverse della stessa necessità economica.
Il Banco Rosso infine, il più antico (attivo dal XVI secolo), era legato al quartiere di Cannaregio, nel cuore del Ghetto Ebraico Veneziano, dove si accedeva per ottenere piccoli prestiti garantiti da oggetti.

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Screenshot

Dal fasto alla chiusura: la fine della moneta di banco

Nel 1637 il Banco della Piazza di Rialto chiuse definitivamente, assorbito dal successo del Banco del Giro, che divenne la colonna portante dei pagamenti pubblici e privati della Serenissima. Tuttavia, con la caduta della Repubblica nel 1797 e la trasformazione dei poteri economici sotto Napoleone, il banco perse gradualmente la propria funzione. Nel 1805 fu avviata la liquidazione, e con essa si chiuse un’epoca in cui Venezia aveva gestito un sistema bancario moderno e controllato dallo Stato. Oggi, sotto le arcate di Rialto, resta solo l’eco del nome inciso nel marmo — “Bancogiro” —, memoria di una città che aveva saputo rendere invisibile il denaro, trasformandolo in pura fiducia.

Per concludere

Oggi il Sotoportego del Bancogiro appare come un passaggio qualunque, nelle vicinanze del Canal Grande, e spesso ignorato da chi attraversa Rialto soltanto alla ricerca di souvenir o fotografie. Eppure, basta fermarsi un istante per sentire il respiro del suo passato: il fruscio delle pergamene, il tocco delle penne d’oca, il sussurro dei numeri che scorrevano tra i registri. Là dove il denaro smise di pesare e cominciò a significare fiducia, Venezia tracciò una delle sue più grandi magie: rendere invisibile ciò che muove il mondo. E mentre l’acqua scorre, il nome “Bancogiro” continua a brillare e vivere. Oggi è una rinomata osteria, ma rimane anche un segreto inciso nella pietratestimone silenzioso del tempo in cui la città lagunare inventò la modernità, senza saperlo.

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Scopri la mappa segreta di Venezia: oltre 100 Segreti di Venezia e altre curiosità da esplorare

Qui sotto trovi la mappa interattiva dei Segreti di Venezia, con tutti i luoghi geolocalizzati. Ogni pin ti condurrà direttamente all’articolo corrispondente, permettendoti di esplorare la città seguendo le tracce dei racconti e di scoprire angoli nascosti e curiosità come mai prima d’ora.

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I Segreti di Venezia: Cosa sono i Nizioleti e perché ci raccontano la città

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”. Oggi ci addentreremo nelle calli alla scoperta di uno degli elementi più caratteristici della città lagunare e che, proprio perché li vediamo di continuo, spesso passano quasi inosservati. Senza di loro non sapremmo dove siamo, dove stiamo andando o cosa stiamo per vedere. Insomma, in estrema sintesi: senza i Nizioleti, le Calli, i Campielli e tutte le altre peculiarità toponomastiche non avrebbero un nome proprio.

Cosa sono i Nizioleti e perché si chiamano così

Si tratta dell’equivalente dei cartelli stradali presenti in tutte le città italiane: in perfetto parallelismo, i Nizioleti non sono altro che i segnali “alla veneziana” che danno un nome a calli, campi, ponti, rii e molti altri luoghi. Sono realizzati all’interno di rettangoli bianchi con bordi neri, dipinti direttamente sui muri che affiancano lo spazio da denominare. La parola “Nizioeto” significa letteralmente piccolo lenzuolo, un’espressione che richiama con immediatezza il candore dello sfondo su cui vengono scritti i nomi, come se fossero vere e proprie lenzuola adagiate sulle pareti della città.

Un po’ di storia

I Nizioleti affondano le loro radici nella storia più antica di Venezia e nella sua complessa toponomastica. La necessità di identificare calli, rii, campi e ponti nasce già ai tempi della Serenissima, quando i luoghi prendevano nome da usi popolari, mestieri, tradizioni o dalle famiglie che abitavano la zona. Il periodo austriaco non fece che rafforzare questa consuetudine, rendendola più sistematica. In tempi recenti, nel 2012, il Comune di Venezia ha promosso un importante intervento di catalogazione e uniformazione, correggendo incongruenze e riportando ordine in quelle situazioni in cui i nomi risultavano controversi o discordanti. Tra le curiosità da scoprire c’è anche quella che vede i Nizioleti non solo utilizzati per dirci in quale calle o campo ci troviamo, ma anche per determinare l’inizio di un determinato sestiere come si può vedere nelle immagini.

Chi li realizza oggi

Come per la catalogazione, anche la responsabilità di realizzazione, restauro e manutenzione dei Nizioleti spetta al Comune di Venezia. I lavori vengono commissionati a ditte specializzate nel recupero del patrimonio urbano, seguendo processi, materiali e regole rigorose: si parte dall’intonaco, che deve avere lo spessore corretto (circa un centimetro e mezzo), si utilizzano stencil o “dime” per le lettere delle scritte e si prevedono rifacimenti periodici per le superfici che col tempo si deteriorano.

Nizioleti famosi e luoghi particolari tratti dai miei articoli


Molti Nizioleti di Venezia raccontano storie e mestieri antichi, ma anche curiosità legate a luoghi particolari. Alcuni portano nomi che evocano arti e professioni: Calle del Luganegher (salsicciai), Calle del Pestrin (lattai), Calle del Forner (fornai). Altri conservano soprannomi popolari, versioni dialettali o leggende locali, come il Ponte dei Zogatoli (dove troverete il Lego del Soldato Quo), in realtà il Ponte San Grisostomo, così chiamato per un negozio di giocattoli che un tempo sorgeva lì.

Alcuni Nizioleti sono celebri per la loro storia o per nomi curiosi legati a famiglie antiche, attività scomparse come il Rio terà del Barba frutariol (fruttivendolo) o storie leggendarie: il Ponte dei Pugni, il Rio Terà degli Assassini, La Piscina San Moisè con il pontile segreto dei Pittori, la Macabra storia di Riva de Biasio, ovvero un serial killer veneziano, le Misteriose Statue in Campo dei Mori, il Sotoportego Zurlin, il più basso di Venezia, o la Toletta, una libreria dove i libri sembrano “attraversare” il tempo, mentre altri evocano luoghi famosi per la loro atmosfera “particolare”, come il Ponte delle Tette.

Come riconoscerli e interpretarli

Per leggerli bene, bisogna sapersi orientare: i Nizioleti sono dipinti sui muri delle case ad altezza tale da essere visibili ma protetti. Contengono il nome della via, spesso in veneziano, talvolta con l’indicazione del sestiere o della parrocchia. Osservare il tipo di scrittura, le varianti nel nome, l’usura o i restauri fa capire quanto antica sia la targa e quanto sia stata oggetto di attenzione civica. Nella toponomastica veneziana, parole come Calle indicano le viuzze principali, mentre le Ruga sono calli particolarmente lunghe e importanti; i Sotoportego sono passaggi coperti che attraversano edifici, le Corte piccoli cortili interni, i Campiello piazzette intime, e i Campi spazi aperti che un tempo ospitavano coltivazioni, oggi teatro di vita quotidiana. Le Fondamenta costeggiano i canali e separano i palazzi dall’acqua, le Liste sono vie in pietra bianca con valore simbolico o funzionale, e i Rio Terà sono strade costruite sopra ex canali interrati. Altri termini raccontano funzioni particolari: la Piscina indica bacini d’acqua un tempo destinati a pesca o nuoto, i Rami sono diramazioni delle calli, le Salisade strade selciate, e infine gli Squeri sono cantieri navali per costruzione e riparazione di imbarcazioni. Conoscere questi termini permette di leggere i Nizioleti non solo come semplici targhe, ma come frammenti vivi della storia urbana e culturale di Venezia (approfondisci QUI). Come tutte le vicende umane, però, non tutti i messaggi sulla città sono istituzionali: alcuni cittadini o visitatori lasciano scritte informali sui muri, come vicino al Ponte dell’Accademia nel cuore del Sestiere di San Polo, espressioni che talvolta rivelano l’impatto dell’overtourism e della pressione quotidiana che la città e i suoi abitanti subiscono.

Graffito Veneziano

Un patrimonio da custodire

I Nizioleti non sono e non saranno mai solo dei segnali stradali: rappresentano tracce viventi di un codice urbano, linguistico e culturale. Quando un Comune, come Venezia in questo caso, ne restaura decine ogni anno, lo fa non solo per il decoro ma soprattutto per preservare la storia attraverso una delle sue più originali declinazioni. Custodire i Nizioleti significa rispettare i nomi e le storie che raccontano chi siamo, come viviamo e da dove proveniamo.

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Per concludere

Camminando tra calli, campi e sotoporteghi, i Nizioleti svelano piccoli segreti di storia, mestieri e vita quotidiana veneziana. Osservare ogni targa, leggere ogni nome, notare le variazioni nei caratteri o l’usura dei secoli significa entrare in contatto con il respiro vivo della città. Leggere i Nizioleti non è solo informarsi: è immaginare le mani che li hanno dipinti, le storie che hanno attraversato le calli e i ponti, i segreti nascosti dietro ogni angolo. Ogni rettangolo bianco con lettere nere diventa così un piccolo teatro d’arte e memoria, dove il passato prende forma davanti ai nostri occhi raccontandosi senza filtri o censure. Custodire e ammirare i Nizioleti significa partecipare a un dialogo tra ieri e oggi, un’esperienza che resta impressa nella memoria e nel cuore di chi sceglie di scoprire Venezia passo dopo passo o, come dico nella nuova rubrica: Ascoltando il battito di ogni luogo.

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I Segreti di Venezia: Bere un’Ombra, la Storia di un Antico Modo di Dire – San Marco

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”, un viaggio tra storie nascoste e piccoli miracoli quotidiani, spesso invisibili agli occhi di chi attraversa la città con troppa fretta.

Avete mai sentito un veneziano – o un veneto – dire: «Andiamo a bere un’ombra?»
Se la risposta è no, e un giorno vi capitasse, non pensate di aver capito male né di trovarvi davanti a un raggiro. Al contrario: è un invito a un antico rito cittadino, che da secoli si rinnova tra le calli e i campielli. Un’usanza così radicata da aver superato i confini lagunari, fino a ispirare persino il nome di un locale a Milano.

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Venezia, la Piazza e il Sole: l’origine del “bere un’ombra de vin”

Ogni giorno, Piazza San Marco diventa un palcoscenico silenzioso, dove il sole e l’ombra danzano nel silenzio. Al mattino, i raggi che si insinuano tra campanile e basilica proiettano ombre lunghe verso ovest, protendendo ombra verso le Procuratie. Nel pomeriggio poi, il sole scappa verso ovest e le ombre si ribaltano verso est, come se la piazza stessa misurasse il tempo, trasformandosi in una grandissima meridiana. Chi cammina tra i tavoli e le colonne può osservare questo lento movimento e farsene parte, un gioco antico, discreto e perfetto, che da secoli accompagna i veneziani nel loro rito quotidiano.

Ancora oggi le bancarelle di souvenir pare rincorrano l'ombra del campanile
Ancora oggi le bancarelle di souvenir pare rincorrano l’ombra del campanile

Nacque così dunque l’espressione diffusissima a Venezia e dintorni, “Andemo a bere un’ombra” che si traduce, nella realtà dei fatti in: “Andiamo a bere un bicchiere di vino?”. Ancora oggi si usa anche in senso più ampio per invitare qualcuno a bere qualcosa in compagnia.

Il chioschetto itinerante: una corsa all’ombra come in un gioco dell’oca

L’origine si può collocare intorno XIV secolo, 1300 e dintorni: attorno al campanile di San Marco vi erano dei tavoli mobili e le osterie vi servivano il vino spostandoli poi seguendo l’ombra del campanile per mantenere il vino al fresco. Da qui l’antico la frase “Andémo bere all’ombra”, poi evolutosi nell’attuale forma.

La piazza e l’ombra del campanile

Bacari e osterie, ma anche furbizia: il legame secolare tra Venezia e il vino

Venezia è da sempre una città di commerci e ingegno. In particolare, lungo Calle de l’Arco, al civico 456, un tempo si trovava un vivace laboratorio di artigiani intenti a costruire botti di legno, necessarie per trasportare vino e altri prodotti. Le strette e alte porte delle abitazioni veneziane rendevano spesso difficile far passare queste grandi botti, ma i proprietari dello stabilimento trovarono una soluzione: crearono un vano d’entrata sagomato appositamente per il passaggio dei cilindri di legno: la Porta della Botte.

la porta della botte
la porta della botte

Questo dettaglio racconta non solo l’abilità artigianale, ma anche la costante inventiva dei veneziani, capaci di trasformare ogni ostacolo in opportunità. Ancora oggi, passeggiando tra le calli, si percepisce il legame secolare tra la città e il vino, tra lavoro, creatività e tradizione.

Storie, aneddoti e risse da osteria, immaginiamole così:

Quante storie potrebbero raccontare i Signori della Notte… figure silenziose e vigili che percorrevano calli e campielli quando le luci dei bacari tremolavano appena e il chiacchiericcio dei bevitori del giorno lasciava spazio al silenzio della laguna. Il loro compito non era solo protezione, ma anche un sottile controllo, un equilibrio tra ordine e libertà, tra la curiosità dei passanti e l’ebbrezza di chi aveva già brindato troppo. Osservavano, ascoltavano, intervenivano solo quando necessario, diventando testimoni discreti di segreti, chiacchiere e pettegolezzi che Venezia custodiva gelosamente.

Uno scorcio veneziano del 1200 di notte immaginato da Copilot AI
Uno scorcio veneziano del 1200 di notte immaginato da Copilot AI

Se il racconto di oggi non ti è bastato, facciamo un sorso di Venezia in più:

Quante storie può custodire un’ombra de vin. Non solo il bicchiere condiviso all’osteria, tra chiacchiere e risate, ma anche il riflesso di secoli di vicende e segreti. Dietro ogni sorso c’è una Venezia fatta di pietre antiche e voci sussurrate: dai Dogi che si incoronavano tra la Porta della Carta e la Scala dei Giganti, ai sospiri dei prigionieri che attraversavano il ponte più famoso. C’è l’eco delle denunce segrete infilate nelle Bocche di Leone, l’ombra dei Signori della Notte a vigilare sulle calli dopo il tramonto, e il profumo di storie incredibili che aleggia tra campanili, palazzi e ponti nascosti. Ogni angolo di Venezia è una storia che si accompagna bene a un calice di vino: basta fermarsi, ascoltare e lasciarsi guidare.

panoramica della piazza
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In conclusione:

Bere un’ombra non è solo gustare un bicchiere di vino: è partecipare a un rito che attraversa i secoli, un gesto semplice che unisce la storia, con curiosità e convivialità. Come la meridiana naturale di Piazza San Marco, che misura il tempo con ombre mute e precise, anche il rito dell’ombra ci ricorda di osservare, rallentare e, soprattutto, lasciarci sorprendere.

Prendersi il tempo di seguire queste tradizioni, di camminare tra bacari e calli, significa diventare custodi del patrimonio invisibile di Venezia, assaporando un piccolo miracolo quotidiano che continua a vivere e ripetersi, tra memoria e presente, nelle storie che la città ancora sussurra da ogni suo mattone.

In questa città ricca di misteri e di segreti, ogni vicolo nasconde un aneddoto prezioso da tramandare, e la mia missione è cercare di incuriosirvi e regalandovi, una tessera di puzzle per volta, un quadro variopinto della storia locale da un punto di vista inedito. Continuate a seguire questa rubrica e lasciatevi incantare dalle meraviglie di Venezia, un passo alla volta.

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I Segreti di Venezia: i ponti gemelli Duodo e Barbarigo “de la Feltrina” nascondono una porta segreta – San Marco

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”, un viaggio senza tempo tra le affascinanti storie e le unicità della splendida città lagunare. Sono i piccoli dettagli a stimolare la curiosità e la ricerca. Proprio da uno di questi inizia la storia che vi racconterò oggi. Una storia vera, un luogo reale ed un mistero, tutto da scoprire.

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Una porta sotto al ponte

A Venezia, ogni ponte ha un nome, ed ogni nome racconta una storia. Alcuni evocano amori, altri intrighi, altri ancora… misteri e silenzi. Sono pochi però i ponti così vicini da sembrare gemelli — e tra questi spiccano i ponti Duodo e Barbarigo, noti anche come i ponti gemelli “de la Feltrina”, nel cuore del sestiere di San Marco, a poche decine di metri in linea d’aria dal Teatro La Fenice.

A un primo sguardo, appaiono semplici passaggi speculari, quasi simmetrici nel loro disegno. Ma se ci si ferma ad osservare con attenzione, proprio sotto l’arcata di quello all’angolo, dove un capitello sporge discreto, si nasconde qualcosa di più.

Sotto la volta che sorregge la struttura e valica le acque, nascosta nell’ombra, giace una piccola porta murata che si affaccia direttamente sul canale. Potrebbe sembrare una casualità, un dettaglio dimenticato dal tempo — ma così non è. La sua forma è curata e precisa, il profilo è inciso nella pietra d’Istria, elegante e deciso: qualcuno l’ha voluta lì, forse già consapevole del silenzio che l’avrebbe avvolta nei secoli.

Molte le ipotesi intorno al suo significato. C’è chi la immagina come accesso privato via acqua, chi come via di fuga o uscita segreta. Qualcuno suggerisce che potesse servire a sfuggire agli occhi vigili della Serenissima, magari per mercanti disonesti, trafichi clandestini o amori proibiti.

Una traccia viva nella pietra di una Venezia esoterica?

Proprio la sua collocazione appartata e la sua eccezionalità architettonica rendono questa porta una vera fonte d’ispirazione per chi segue e studia la Venezia più misteriosa ed esoterica, ma a conti fatti l’unica certezza che ci resta è quella offerta dalla toponomastica ufficiale, che lega il nome del luogo alla famiglia Feltrina, un tempo antica proprietaria della zona. Nomi e tradizioni, a differenza della funzione originaria della porta ormai murata, sono sopravvissuti al tempo, giungendo fino a noi come indizi sbiaditi di una storia più grande, tutta da immaginare.

Dove trovarla:

La porta si trova nel sestiere di San Marco, nelle adiacenze del Campo e della Chiesa di Santa Maria del Giglio.

Da Piazza San Marco, queste le indicazioni: procedi in direzione sud su Piazza San Marco verso Salizada San Moisè, poi svolta a destra imboccando Salizada San Moisè. Prosegui su Calle Seconda de l’Ascension e continua dritto su Salizada San Moisè, salendo le scale. Avanza lungo Calle Larga XXII Marzo, attraversa il Ponte San Moisè e sali nuovamente le scale. La strada curva leggermente a destra diventando Calle delle Ostreghe: continua su di essa, sali ancora le scale e svolta leggermente a destra per restare su Calle delle Ostreghe. Attraversa poi il Ponte Duodo o Barbarigo e infine svolta a destra su Campiello de la Feltrina San Marco, salendo le ultime scale del percorso.

Per scorgere la porta segreta, dovrai restare giù dai ponti o salire su quello che conduce verso Fondamenta Corner Zaguri. È lì che si cela uno dei piccoli enigmi della città.

Nel cuore del dedalo veneziano, non conta soltanto la meta, ma lo sguardo con cui la raggiungiamo. Spesso è proprio nei dettagli più silenziosi che si nasconde la meraviglia. Tra due ponti, in una pausa tra un passo e l’altro, questa porta può apparire come la pagina di un libro aperta dal caso.

La porta della Feltrina suscita interrogativi, forse da secoli, in chi la osserva. Chi la attraversava? Quali segreti custodiva? Perché fu chiusa? Non abbiamo risposte certe, ma in fondo non importa. A Venezia, anche le porte che non si aprono ci fanno sentire qualcosa. Lo fanno con la grazia delle cose dimenticate, che sanno ancora emozionare chi ha il coraggio di rallentare e osservarle.

Perché in questa città, ogni muro ed ogni mattone sono un sussurro, e ogni scorcio un invito alla meraviglia.

Cosa vedere nelle vicinanze:

Nel Sestiere di San Marco, già di suo ricco di fascino e storia, ci sono alcune piccole gemme che, visitando il Ponte Duodo, si rendono vicine e ve ne rivelo alcune: Bacino Orseolo, il Negozio Olivetti, il Balcone del Doge, il Campanile pendente di Santo Stefano da Campo Sant’Anzolo col suo Canale Segreto, la Scala Contarini del Bovolo o anche la Piscina San Moisè e il pontile dei pittori.

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In conclusione:

Nel cuore del dedalo veneziano, non conta soltanto la meta, ma lo sguardo con cui la raggiungiamo. Spesso è proprio nei dettagli più silenziosi che si nasconde la meraviglia. Tra due ponti, in una pausa tra un passo e l’altro, questa porta può apparire come la pagina di un libro aperta dal caso.

Quella porta suscita interrogativi, forse da secoli, in chi la osserva. Chi la attraversava? Quali segreti custodiva? Perché fu chiusa? Non abbiamo risposte certe, ma in fondo non importa. A Venezia, anche le porte che non si aprono ci fanno sentire qualcosa. Lo fanno con la grazia delle cose dimenticate, che sanno ancora emozionare chi ha il coraggio di rallentare e osservarle.

Perché in questa città, ogni muro ed ogni mattone sono un sussurro, e ogni scorcio un invito alla meraviglia.

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I Segreti di Venezia: Non calpestare la Pietra Rossa, evitala come la Peste! – Sestiere di Castello

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”, un viaggio senza tempo tra le intriganti vicende della città lagunare. Il Segreto di oggi, a differenza della romantica storia di Orio e Melusina, vi metterà i brividi, perchè si va a radicare intorno ad una malattia che più volte nei secoli ha mietuto milioni di vittime totali.

La Simbologia Mariana presso uno dei due ingressi di questo “sottoportego”

Ci troviamo nel Sestiere di Castello, non distanti da Piazza San Marco e dall’Arsenale, più precisamente siamo in “Calle Zorzi” al “Sotoportego della Corte Nova“. Se attraverserete questo sottoportico però fate attenzione alla “pietra rossa”, infatti, secondo leggende e superstizioni, non andrebbe mai e poi mai calpestata.

La pietra rossa della Peste

Ma qual è la storia all’origine della leggenda della Pietra Rossa?

Ebbene, siamo nel 1630, a Venezia imperversava una pestilenza che fece morire più di 80.000 veneziani. Tutta Venezia ne fu colpita, tranne la Corte Nova. Si tramanda che proprio in questa zona abitasse Giovanna, che ebbe una visione della Madonna in sogno nella quale, la Vergine, chiese alla donna di realizzare un dipinto raffigurante la sua Santa Effige insieme a quella di San Rocco e di San Sebastiano, per poi affiggerlo nel sottoportego Zorzi.

Giovanna ubbidì ciecamente e sconfisse la diffusione dela Pestilenza che, ivi giunta, cadde al suolo colpita a morte proprio nel punto in cui oggi possiamo ammirare con timorosa devozione la pietra rossa.

Iscrizione arcaica dedicata alla Vergine Maria ed ai santi.

A testimonianza del miracolo oggi nel sottoportego troviamo ancora due altari dedicati alla Madonna, le foto di quattro dipinti dell’epoca raffiguranti l’aneddoto (oggi visibili nella chiesa di San Francesco della Vigna) e una frase, apposta all’entrata del sottoportego che recita così: «Fuggi né pensi l’entrar peste ria / questa corte è benedetta da Maria»

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Da quel giorno dunque, ogni Veneziano che si rispetti, passando di lì ben si guarda dal calpestare quella pietra rossa, così che Venezia sia protetta e non precipiti in nuove disgrazie come la peste del 1630.

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