“Chi ha rapito Santa Claus?” 2 Dicembre – Prigione d’Ombra

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2 Dicembre – Prigione d’Ombra

Patty la topolina bianca compagna di cella di Santa Claus

Il sonno di Santa solitamente durava qualche mese, un po’ come il letargo di certi animali. Magari veniva svegliato di tanto in tanto da qualche orso polare che non stava passando il suo momento migliore della vita o da altre creature che nonostante la loro natura più spirituale che materiale ogni tanto potevano avere dei momenti no. In quest’ultimo caso sapevano di poter riporre la loro fiducia in quel vecchio dalla barba bianca, tanto gentile e tanto altruista. Questa volta però era diverso, si svegliò infatti acciaccato quasi con la sensazione di essere tumefatto in più parti, mentre gli occhi parevano quasi incollati da tanta era la fatica a spalancarli. Prima ancora di farlo, però provò a muovere le braccia e le gambe si rese conto di essere seduto e non sdraiato. Legato e non libero, finalmente riuscì ad aprire gli occhi e vide ciò che forse non aveva immaginato nemmeno nei suoi peggiori incubi. Una stanza buia spoglia e prima di qualsiasi riferimento sul mondo esterno o finestre, davanti a lui sulla sinistra, un camino acceso. Santa non è uno stupido, aveva già capito che qualcosa non andava e non era il classico scherzo da prete di un elfo bisognoso di attenzioni. Era stato rapito, ma chi lo aveva fatto? Come aveva potuto non accorgersi di nulla? Quando era accaduto? Non poté procedere con il ragionamento, perché venne interrotto dal suono di passi pesanti in lontananza. Una figura alta altissima apparì alle sue spalle, proiettando un’ombra decisamente maestosa grazie alla luce che penetrava dall’esterno Santa provó a girarsi verso quella direzione, ma non riuscì a vederne la sagoma e riconoscerne le sembianze. Pareva un mantello di tenebre che lo nascondeva completamente. Avrebbe potuto dire la classica frase tu non sai chi sono io, ma la trattenne per sé, capendo che sarebbe stato inutile dunque per provare a capirne di più provò con una frase di circostanza di falsa tranquillità esordì così: “Salve, cosa la porta da queste parti?” quasi con un’ironia sottile, assolutamente inadatta al contesto. Non ottenne risposta alcuna né nei gesti né a parole, solo un sospiro profondo, il suo, consapevole che questa cosa avrebbe potuto mandare a monte secoli di attività e sogni di tante persone. La porta si richiuse e con essa la serratura. Ricadde un parziale oblio nella stanza, una cella la cui oscurità era interrotta solamente dal crepitio del focolare appena rintuzzato con qualche pezzo di legno. Fu così che Santa inizió un lungo ragionamento mentale su chi potesse volergli così tanto male a lui e al Natale. Gli vennero in mente decine di entità figlie delle più diverse credenze e rappresentanti alcuni dei più vari generi di malevolenza. Nessuno però spicco per metodi e sensazioni per essere l’indiziato principale anche questo principio di indagine, che peraltro non era una caratteristica di Santa fare il commissario di polizia, ci sarebbe protratta per le lunghe. Provò a contattare Rudolf con la forza del pensiero, era una cosa che funzionava e ha funzionato in passato, ma anche quella forma di comunicazione risultava interrotta. Da questo indizio potrei capire che chi aveva compiuto questo gesto non era un entità qualsiasi dunque per quanto ancora ampissima la cerchia dei sospettati rimaneva ancora ampia ma non più infinita come all’inizio. Neanche il tempo di finire i propri pensieri che la porta si riaprì questa volta, chiunque fosse fece sentire la propria voce, anonima nella memoria di Santa, dicendo: “ perché diavolo vi dimenticate ogni volta incappucciare il prigioniero meno vede, meno capirà; meno capirà, più saremo al sicuro dagli assi che tira fuori sempre dalla sacca di Natale”. Così come si era aperta con un cigolio solenne, la porta si richiuse. L’ombra si ripristinò quasi totalmente, mentre il silenzio e l’oscurità interrotte dalle fiamme e dal crepitio del focolare rimasero nuovamente le uniche compagnie di un disorientato Santa. Nel frattempo, in una stanza probabilmente contigua proseguivano i dialoghi da parte di coloro che tramavano ed arguivano contro il Natale professando di odiarlo con tutto loro stessi dalle voci lontane e dalle sensazioni che provava nell’ascoltarli li immaginava come dei manigoldi o delle entità di basso livello che rispondevano agli ordini di un malfattore superiore. Tutto d’un tratto Santa percepì qualcosa, una sorta di zampettio leggero che per quanto flebile andava a fare delle minime microscopiche percussioni sul pavimento della cella. Capì che non fosse nulla di pericoloso ma che si trattasse anzi di una piccola bestiola mantenne il silenzio dunque per non spaventarla per fare in modo che un eventuale primo approccio potesse sopraggiungere da ella. Non vi era contatto visivo tra i due perché Santa, come ben ricordiamo era incappucciato ma si sentiva osservato. Infine qualcosa accade la creatura manifestò i suoi pensieri ad alta voce: “ non puoi farlo no assolutamente no è un’idea stupida. Questo tizio non sembra come tutti gli altri che sono passati qui, ma ho paura possa farmi del male”. Fu a quel punto che Santa si decise a dire una sola parola per provare a rompere il ghiaccio: “ anche fossi così terribile, qualunque cosa tu sia, non potrei farti del male o divorarti perché non posso vederti” la creatura reagì con un tono preoccupato “ ecco, l’ho fatto di nuovo parlare anziché pensare devo ricordarmelo la prossima volta e starmene zitta e pensare e non viceversa, devo sfruttare bene l’intelligenza che mi è stata data in dote” e Santa “ sei una creatura intelligente e riflessiva dimmi almeno cosa sei o chi sei, giusto per poter immaginare chi a questo punto mi farà compagnia in questa in questa prigionia” e lei “ so che me ne pentirò, ma proviamo a dare fiducia a quest’uomo corpulento, anche se sono certa che non finirà bene, mi chiamo Patty e sono una topolina bianca, vivo qui da…” un rumore fortissimo spaventò la topolina, fuggì senza dire nulla, senza completare la frase, facendo scoprire a Santa quanto rumoroso potesse diventare un silenzio improvviso.

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“Chi ha rapito Santa Claus?” 1 Dicembre – Brivido al Polo Nord

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1 Dicembre – Brivido al Polo Nord

Rudolf umanizzato con lo sguardo perso e triste

Un brivido oscuro e improvviso attraversò Rudolf dalle corna alla coda. Pareva una freccia di ghiaccio che gli trapassava l’anima. Il respiro sospeso: ancora bloccato a quell’istante, nel cuore di Venezia, in cui lui e Santa avevano salvato il Natale. Ora, dopo quasi un anno di letargo che pareva un oblio, qualcosa era cambiato. Trovò il coraggio di aprire gli occhi. Guardò fuori dalla finestra della stalla: la neve cadeva copiosa e furiosa — una vera bufera. Sbuffi gelidi filtravano tra le assi di legno. Solo allora un fulmine interiore lo colpì: Santa non era lì. Era la prima volta, da millenni, che non lo vedeva apparire in quel preciso momento in cui solitamente cominciavano i preparativi. Certo, anche l’anno prima non si era presentato la mattina del 1° dicembre per una riparazione della slitta, ma questa volta era diverso. Per due motivi. Non aveva avvisato. E, soprattutto, non si percepiva la sua energia nell’aria. Scattò in piedi. Una scintilla nella mente: un flashback che era più di un ricordo, quasi una sensazione. Chiuse gli occhi e rivide la lanterna sul pozzo a Venezia, spegnersi lentamente. A seguire, nitido, il vuoto: Santa non era mai tornato da quella calle resa oscura dallo spegnersi di quell’oggetto potentissimo. Circa, Rudolf, si era fermato a salutare i due bambini — i gemelli — che con la loro generosità avevano, senza saperlo, salvato la luce del Natale. La renna, stoicamente, cercò di trattenere l’ansia e, prima di lanciare l’allarme, decise di cercare Santa laddove la cosa non avrebbe destato sospetti. Partì dal Salone dei Sussurri, un’antica sala dove gli elfi, tendendo le loro orecchie verso le spesse pareti ghiacciate, potevano captare e trascrivere con macchine da scrivere meccaniche i desideri dei fanciulli di tutto il mondo. Santa non c’era. Gli Elfi, nemmeno. Fu così che Rudolf si spostò altrove, borbottando contro sè stesso di non averci pensato prima, andò nel garage delle slitte di Santa e, poggiata una zampa sulla parete lungo un’asse di legno scheggiata, si aprì un cassetto segreto. “Eccola” sussurrò Rudolf prendendola tra le zampe, investito da quella magia arcana assunse una forma umana, cosa che accadeva solo in rarissimi casi. Prese tra le mani l’oggetto custodito nel vano segreto e sospirò stizzito. La bussola che indicava sempre dove si trovasse Santa stava girando all’impazzata in ogni direzione. A quel punto Rudolf alzò lo sguardo verso l’appendiabiti in cui, per tutto il periodo di riposo, veniva agganciata la tunica di Santa, era vuoto! “Step successivo” disse come autoesortazione, aprì lo schedario magico delle partenze e degli arrivi, riportava solo “Laguna Veneta 2024” in partenze, con la sfilza di località visitate, ma non vi era  nessun ritorno. Corse così verso l’Astrolabio del Natale, ma anche lì l’ultimo movimento registrato era proprio quello di arrivo a Venezia, seguito dai movimenti in loco. Posò dunque l’astrolabio, il fiato si era fatto corto e tremavano i polsi. Non era paura, ora era panico. Santa non aveva fatto ritorno, un vuoto così perfetto non trova spazio nella casualità. La nostra renna preferita dunque si decise, uscì fuori nella tormenta e, come colto da una repentina ispirazione, si diresse verso il “Deposito dei doni reietti”. La porta, altissima, si apriva verso l’esterno, ma la tanta, tantissima neve la bloccava. Fu così che Rudolf sbuffò, fortissimo, per un istante si ripulirono arie e cielo, spalancò quella porta ed entrò. Le scatole dei regali non accettati, piene di magia non corrisposta, fecero di tutto per attirare la sua attenzione. Dovete sapere che non vi è nulla di più triste nell’universo di un dono natalizio rifiutato. Tra sussurri, singhiozzi e versi di disperazione, Rudolf fu attirato da una scatola semplice, bordeaux e coperta di polvere oltre ogni immaginazione, Rudolf soffiò via la polvere e, sul biglietto lesse: “A Rudolf, testimone instancabile della magia del Natale, quando nessuno osava più crederci”. La renna sbiancò, non aveva mai rifiutato un regalo, era un peccato morale per gli umani, figuriamoci per chi aveva la riuscita del Natale tra gli scopi vitali. Proseguì a guardare quel biglietto cercando una firma o un indizio, lo aprì, vi era una lettera seguita da un punto come ad indicare l’iniziale di un nome, ormai indecifrabile. A quel punto poco importava il mittente, bisognava capire il contenuto. Scartò con cura e attenzione, poi, scoperchiò la scatola e… “Una bussola?!” esclamò. Anche questa girava, pazza come l’altra, ma, una volta presa in mano si fermò di scatto indicando una zona precisa: il “Magazzino delle Creature Dimenticate”, per raggiungerlo andava attraversato il Corridoio delle lanterne di Natale, che come per magia, di Natale in Natale si allungava sempre di più, rendendo sempre più lontane nella memoria collettiva quelle creature, per l’appunto, dimenticate. Man mano che Rudolf percorreva il corridoio le lanterne al suo fianco si accendevano, quelle che lo precedevano si destavano e quelle alle sue spalle si sopivano. Era tanto spettrale quanto aulico ed affascinante. Al termine, una soglia spalancata sul cui stipite campeggiava un cartello: “non serve proteggere ciò che nessuno cerca più”. Rudolf ne varcò la soglia e gli occhi si posarono dapprima su vecchi pupazzi, poi su cavalli a dondolo, trenini elettrici, palloni bucati, bambole sgualcite, c’era anche la prima ruota dell’umanitá. In fondo a tutto questo oblio, su di un trono di lego sbiaditi, ecco un Teddy Ruxpin con un bottone giallo al posto di un occhio e una benda da pirata sull’altro guardarlo e dire, con voce rauca e spezzettata: “Qui è transitato, non colui che cerchi, non la luce, ma il buio, nella sua massima espressione”. Rudolf reagì e rispose: “Chi?” E il peluche: “Si tratta diiiiiiii…” ne seguì un suono metallico, poi uno sfrigolio, infine, il tipico suono di una cosa che, esaurita la sua energia vitale, cede al suo inesorabile declino. Rudolf scalciò arrabbiatissimo, vicino forse alla soluzione, ormai perduta. Quella rabbia però diede vita ad un miracolo. Tutte le lanterne si accesero, un’onda di luce camminò in quel corridoio attraversato poco prima, tutte tranne una, vicinissima. La renna corse verso di lì, rincorsa con lentezza da alcune creature speranzose in un’uscita dall’oblio, invano. Chiuse la porta, si affrettó e prese in mano quella lanterna, l’ultima. Quella del Natale appena passato, una copia identica, gemella, di quella usata a Venezia. Avvicinandola al suo viso vide che non era proprio spenta, ma emanava ancora una fioca luce. Portandola innanzi all’occhio ecco, come una proiezione di ombre cinesi, la scena che nessuno aveva visto, tranne la lanterna veneziana. Fu così, con l’ultima scintilla, che Rudolf potè vedere una calle Veneziana, quella in cui si era incamminato Santa e poi, repentino, un sacco intessuto con un materiale oscuro ed inconfondibile, quello ottenuto mescolando del filo delle ragnatele della stanza delle creature dimenticate intinte in un composto di vantablack (=uno dei materiali più scuri mai creati dall’uomo) che lo inghiottiva. Infine, una scritta alchemica sul muro vicino: Ῥούντολφος ζητεῖ τὴν Ἀρτεμισίαν “ma questo è greco antico e significa: Rudolf cerca Artemisia!” urlò la renna traducendo letteralmente. Santa dunque sapeva che stava accadendo qualcosa di malvagio e aveva usato l’ultimo barlume di magia per lanciare un messaggio per il suo amico più fidato: Rudolf appunto. Era il momento di agire. “Santa, non so chi sia Artemisia, ma col suo aiuto ti troverò!” la sua promessa, mentre una lacrima percorse il suo volto.

Corridoio delle lanterne di Natale

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I Segreti di Venezia: Bere un’Ombra, la Storia di un Antico Modo di Dire – San Marco

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”, un viaggio tra storie nascoste e piccoli miracoli quotidiani, spesso invisibili agli occhi di chi attraversa la città con troppa fretta.

Avete mai sentito un veneziano – o un veneto – dire: «Andiamo a bere un’ombra?»
Se la risposta è no, e un giorno vi capitasse, non pensate di aver capito male né di trovarvi davanti a un raggiro. Al contrario: è un invito a un antico rito cittadino, che da secoli si rinnova tra le calli e i campielli. Un’usanza così radicata da aver superato i confini lagunari, fino a ispirare persino il nome di un locale a Milano.

isegretidivenezia.com

Venezia, la Piazza e il Sole: l’origine del “bere un’ombra de vin”

Ogni giorno, Piazza San Marco diventa un palcoscenico silenzioso, dove il sole e l’ombra danzano nel silenzio. Al mattino, i raggi che si insinuano tra campanile e basilica proiettano ombre lunghe verso ovest, protendendo ombra verso le Procuratie. Nel pomeriggio poi, il sole scappa verso ovest e le ombre si ribaltano verso est, come se la piazza stessa misurasse il tempo, trasformandosi in una grandissima meridiana. Chi cammina tra i tavoli e le colonne può osservare questo lento movimento e farsene parte, un gioco antico, discreto e perfetto, che da secoli accompagna i veneziani nel loro rito quotidiano.

Ancora oggi le bancarelle di souvenir pare rincorrano l'ombra del campanile
Ancora oggi le bancarelle di souvenir pare rincorrano l’ombra del campanile

Nacque così dunque l’espressione diffusissima a Venezia e dintorni, “Andemo a bere un’ombra” che si traduce, nella realtà dei fatti in: “Andiamo a bere un bicchiere di vino?”. Ancora oggi si usa anche in senso più ampio per invitare qualcuno a bere qualcosa in compagnia.

Il chioschetto itinerante: una corsa all’ombra come in un gioco dell’oca

L’origine si può collocare intorno XIV secolo, 1300 e dintorni: attorno al campanile di San Marco vi erano dei tavoli mobili e le osterie vi servivano il vino spostandoli poi seguendo l’ombra del campanile per mantenere il vino al fresco. Da qui l’antico la frase “Andémo bere all’ombra”, poi evolutosi nell’attuale forma.

La piazza e l’ombra del campanile

Bacari e osterie, ma anche furbizia: il legame secolare tra Venezia e il vino

Venezia è da sempre una città di commerci e ingegno. In particolare, lungo Calle de l’Arco, al civico 456, un tempo si trovava un vivace laboratorio di artigiani intenti a costruire botti di legno, necessarie per trasportare vino e altri prodotti. Le strette e alte porte delle abitazioni veneziane rendevano spesso difficile far passare queste grandi botti, ma i proprietari dello stabilimento trovarono una soluzione: crearono un vano d’entrata sagomato appositamente per il passaggio dei cilindri di legno: la Porta della Botte.

la porta della botte
la porta della botte

Questo dettaglio racconta non solo l’abilità artigianale, ma anche la costante inventiva dei veneziani, capaci di trasformare ogni ostacolo in opportunità. Ancora oggi, passeggiando tra le calli, si percepisce il legame secolare tra la città e il vino, tra lavoro, creatività e tradizione.

Storie, aneddoti e risse da osteria, immaginiamole così:

Quante storie potrebbero raccontare i Signori della Notte… figure silenziose e vigili che percorrevano calli e campielli quando le luci dei bacari tremolavano appena e il chiacchiericcio dei bevitori del giorno lasciava spazio al silenzio della laguna. Il loro compito non era solo protezione, ma anche un sottile controllo, un equilibrio tra ordine e libertà, tra la curiosità dei passanti e l’ebbrezza di chi aveva già brindato troppo. Osservavano, ascoltavano, intervenivano solo quando necessario, diventando testimoni discreti di segreti, chiacchiere e pettegolezzi che Venezia custodiva gelosamente.

Uno scorcio veneziano del 1200 di notte immaginato da Copilot AI
Uno scorcio veneziano del 1200 di notte immaginato da Copilot AI

Se il racconto di oggi non ti è bastato, facciamo un sorso di Venezia in più:

Quante storie può custodire un’ombra de vin. Non solo il bicchiere condiviso all’osteria, tra chiacchiere e risate, ma anche il riflesso di secoli di vicende e segreti. Dietro ogni sorso c’è una Venezia fatta di pietre antiche e voci sussurrate: dai Dogi che si incoronavano tra la Porta della Carta e la Scala dei Giganti, ai sospiri dei prigionieri che attraversavano il ponte più famoso. C’è l’eco delle denunce segrete infilate nelle Bocche di Leone, l’ombra dei Signori della Notte a vigilare sulle calli dopo il tramonto, e il profumo di storie incredibili che aleggia tra campanili, palazzi e ponti nascosti. Ogni angolo di Venezia è una storia che si accompagna bene a un calice di vino: basta fermarsi, ascoltare e lasciarsi guidare.

panoramica della piazza
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In conclusione:

Bere un’ombra non è solo gustare un bicchiere di vino: è partecipare a un rito che attraversa i secoli, un gesto semplice che unisce la storia, con curiosità e convivialità. Come la meridiana naturale di Piazza San Marco, che misura il tempo con ombre mute e precise, anche il rito dell’ombra ci ricorda di osservare, rallentare e, soprattutto, lasciarci sorprendere.

Prendersi il tempo di seguire queste tradizioni, di camminare tra bacari e calli, significa diventare custodi del patrimonio invisibile di Venezia, assaporando un piccolo miracolo quotidiano che continua a vivere e ripetersi, tra memoria e presente, nelle storie che la città ancora sussurra da ogni suo mattone.

In questa città ricca di misteri e di segreti, ogni vicolo nasconde un aneddoto prezioso da tramandare, e la mia missione è cercare di incuriosirvi e regalandovi, una tessera di puzzle per volta, un quadro variopinto della storia locale da un punto di vista inedito. Continuate a seguire questa rubrica e lasciatevi incantare dalle meraviglie di Venezia, un passo alla volta.

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I Segreti di Venezia: la Chiesa della Maddalena tra leggende e simboli massonici – Cannaregio

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”, un viaggio senza tempo tra le intriganti vicende della città lagunare. In questo episodio vi porterò a scoprire due aspetti apparentemente distinti della storia veneziana e dello spirito che anima la venezianità. Siamo spesso convinti che, per scoprire un mistero, sia necessario intraprendere viaggi lunghissimi, percorrere itinerari tenebrosi, attraversare luoghi remoti. Ma non sempre è così. Oggi vi racconterò un luogo tanto incredibile quanto vicino, tanto alla portata quanto, a suo modo, apparentemente “inaccessibile”.

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La Chiesa della Maddalena: dove si trova e come raggiungerla

Nel dedalo silenzioso del sestiere di Cannaregio, tra palazzi sfiorati da milioni di turisti e scorci d’acqua che sembrano fuori dal tempo, si cela uno degli edifici più enigmatici e divisivi di Venezia: la Chiesa di Santa Maria Maddalena. Per molti è un semplice luogo sacro, ma per altri rappresenta un portale simbolico che nasconde una storia fatta di geometrie iniziatiche, riti scomparsi e iconografie massoniche.

Per raggiungerla dalla stazione di Venezia Santa Lucia, procedete in direzione nord-est lungo Calle Favretti e continuate su Fondamenta dei Scalzi, che diventa Rio Terà Lista di Spagna. Dopo circa 300 metri, svoltate a sinistra in Campo San Geremia, poi girate a destra su Fondamenta Cannaregio. Proseguite imboccando Calle del Pistor, Campiello de l’Anconeta e Calle de l’Anconeta, fino a continuare su Rio Terà de la Maddalena. Infine, svoltate a destra su Fondamenta de la Maddalena: qui si apre il suggestivo Campo della Maddalena, con la chiesa che si staglia davanti a voi, discreta custode di segreti e antiche geometrie.

Nelle vicinanze troverete anche: I “Grattacieli” del Ghetto Ebraico, Il Pontile più Instagrammabile della città, Calle Varisco, la più stretta di Venezia, le Misteriose Statue in Campo dei Mori e la Casa del Tintoretto, il Ponte Chiodo, il più iconico ponte privato di Venezia, il Supermercato nel Teatro e le ancorette “portafortuna”.

Una chiesa diversa da tutte le altre e una dedicazione che fa discutere

Come un colpo di fulmine, basta uno sguardo per capire che la Maddalena non è una chiesa come le altre. Il suo elemento più sorprendente è la pianta circolare, un richiamo immediato al Pantheon di Roma — che scopriremo più avanti — e non si tratta certo di una scelta stilistica casuale. Ogni angolo è intriso di significati nascosti, come se l’architettura stessa fosse una scrittura da decifrare, desiderosa di suscitare domande e celare risposte.

Intitolata a Maria Maddalena, la chiesa porta con sé un messaggio teologico e culturale sottotraccia che non è mai stato del tutto chiarito. Maddalena è una figura discussa del Nuovo Testamento: discepola di Gesù, testimone della resurrezione. Questa intitolazione, inserita in un contesto architettonico così suggestivo, alimenta suggestioni e misteri che sfiorano il mito, figli di una scelta certamente non casuale.

Il portale dell’occhio che osserva e, dentro, una citazione al Pantheon

Sulla facciata, scolpito in pietra d’Istria sopra l’ingresso, l’Occhio Onniveggente scruta meticolosamente chi varca la soglia. Triangolo e cerchio si intrecciano in una tipica iconografia massonica ed esoterica; personalmente, non ho memoria di altri simboli simili presenti altrove in forma così esplicita su un edificio religioso. Sopra l’ingresso, un frontone sorretto da colonne ioniche richiama più un tempio greco che una chiesa cristiana.

Questa simbologia si riflette anche nella struttura superiore della chiesa, con un elemento che richiama il celebre Pantheon di Roma.

Sopra la Chiesa della Maddalena si nota una parte cilindrica chiamata tamburo, che sostiene la cupola e cattura subito lo sguardo. Questa forma richiama quella del celebre Pantheon di Roma, dove in cima si apre un grande foro circolare chiamato oculus, come un vero e proprio “occhio” che guarda il cielo.

Anche se qui non c’è un foro aperto, il tamburo della Maddalena sembra un occhio che osserva, un elemento che colpisce e invita a guardare con attenzione, come se la chiesa stessa volesse fissarti, sfidandoti a scoprire ciò che nasconde.

La porta segreta per inginocchiarsi

Sul retro dell’edificio infine si cela un’altra particolarità che funge da ultimo mistero: una porta alta appena 60 centimetri, attraverso la quale si può entrare solo rimanendo in ginocchio. Forse simbolo di umiltà o forse un varco rituale. Nessun documento ufficiale ne spiega la funzione, ma la sua presenza – così anomala in un luogo così eclettico – aggiunge un ulteriore strato di mistero alla già complessa simbologia della chiesa.

la porta segreta sul retro della chiesa della Maddalena

La Maddalena: un portale, quasi sempre chiuso, nascosto tra sacro e mistero

Oggi la Maddalena è quasi sempre chiusa al pubblico. Solo in rare occasioni — spesso per esposizioni o eventi culturali — apre le sue porte. Ho avuto la fortuna di visitarla, casualmente, proprio in uno di questi momenti. È difficile — se non impossibile — distinguere il confine tra architettura sacra e struttura iniziatica. Quel che è certo è che la Chiesa della Maddalena sembra essere una soglia: uno spazio dove il visibile e l’invisibile si sfiorano, e dove Venezia mostra il suo volto più enigmatico.

Un volto che, come sempre, non si offre a tutti, ma solo a chi ha occhi per vedere. Anzi, per osservare.

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In conclusione:

Venezia non smette mai di stupirci.
Anche la Chiesa della Maddalena, nascosta tra le calli di Cannaregio, ci parla di un passato fatto di misteri e simboli, di un’arte che va oltre la semplice forma per raccontare storie segrete. È un luogo che sfida lo sguardo frettoloso del passante, invitandoci invece a fermarci, ad osservare con attenzione, a leggere ciò che non è detto. Scoprire la Maddalena significa aprire una porta verso un Venezia meno conosciuta, fatta di enigmi e di sogni custoditi nel tempo. È un invito a perdersi nei suoi silenzi, a lasciarsi guidare da quella magia sottile che solo questa città sa offrire a chi ha occhi per vedere davvero.

mappa della posizione della chiesa della maddalena cannaregio

In questa città ricca di misteri e di segreti, ogni vicolo nasconde un aneddoto prezioso da tramandare, e la mia missione è cercare di incuriosirvi e regalandovi, una tessera di puzzle per volta, un quadro variopinto della storia locale da un punto di vista inedito. Continuate a seguire questa rubrica e lasciatevi incantare dalle meraviglie di Venezia, un passo alla volta.

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I Segreti di Venezia: i ponti gemelli Duodo e Barbarigo “de la Feltrina” nascondono una porta segreta – San Marco

Benvenuti nella serie “I Segreti di Venezia”, un viaggio senza tempo tra le affascinanti storie e le unicità della splendida città lagunare. Sono i piccoli dettagli a stimolare la curiosità e la ricerca. Proprio da uno di questi inizia la storia che vi racconterò oggi. Una storia vera, un luogo reale ed un mistero, tutto da scoprire.

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Una porta sotto al ponte

A Venezia, ogni ponte ha un nome, ed ogni nome racconta una storia. Alcuni evocano amori, altri intrighi, altri ancora… misteri e silenzi. Sono pochi però i ponti così vicini da sembrare gemelli — e tra questi spiccano i ponti Duodo e Barbarigo, noti anche come i ponti gemelli “de la Feltrina”, nel cuore del sestiere di San Marco, a poche decine di metri in linea d’aria dal Teatro La Fenice.

A un primo sguardo, appaiono semplici passaggi speculari, quasi simmetrici nel loro disegno. Ma se ci si ferma ad osservare con attenzione, proprio sotto l’arcata di quello all’angolo, dove un capitello sporge discreto, si nasconde qualcosa di più.

Sotto la volta che sorregge la struttura e valica le acque, nascosta nell’ombra, giace una piccola porta murata che si affaccia direttamente sul canale. Potrebbe sembrare una casualità, un dettaglio dimenticato dal tempo — ma così non è. La sua forma è curata e precisa, il profilo è inciso nella pietra d’Istria, elegante e deciso: qualcuno l’ha voluta lì, forse già consapevole del silenzio che l’avrebbe avvolta nei secoli.

Molte le ipotesi intorno al suo significato. C’è chi la immagina come accesso privato via acqua, chi come via di fuga o uscita segreta. Qualcuno suggerisce che potesse servire a sfuggire agli occhi vigili della Serenissima, magari per mercanti disonesti, trafichi clandestini o amori proibiti.

Una traccia viva nella pietra di una Venezia esoterica?

Proprio la sua collocazione appartata e la sua eccezionalità architettonica rendono questa porta una vera fonte d’ispirazione per chi segue e studia la Venezia più misteriosa ed esoterica, ma a conti fatti l’unica certezza che ci resta è quella offerta dalla toponomastica ufficiale, che lega il nome del luogo alla famiglia Feltrina, un tempo antica proprietaria della zona. Nomi e tradizioni, a differenza della funzione originaria della porta ormai murata, sono sopravvissuti al tempo, giungendo fino a noi come indizi sbiaditi di una storia più grande, tutta da immaginare.

Dove trovarla:

La porta si trova nel sestiere di San Marco, nelle adiacenze del Campo e della Chiesa di Santa Maria del Giglio.

Da Piazza San Marco, queste le indicazioni: procedi in direzione sud su Piazza San Marco verso Salizada San Moisè, poi svolta a destra imboccando Salizada San Moisè. Prosegui su Calle Seconda de l’Ascension e continua dritto su Salizada San Moisè, salendo le scale. Avanza lungo Calle Larga XXII Marzo, attraversa il Ponte San Moisè e sali nuovamente le scale. La strada curva leggermente a destra diventando Calle delle Ostreghe: continua su di essa, sali ancora le scale e svolta leggermente a destra per restare su Calle delle Ostreghe. Attraversa poi il Ponte Duodo o Barbarigo e infine svolta a destra su Campiello de la Feltrina San Marco, salendo le ultime scale del percorso.

Per scorgere la porta segreta, dovrai restare giù dai ponti o salire su quello che conduce verso Fondamenta Corner Zaguri. È lì che si cela uno dei piccoli enigmi della città.

Nel cuore del dedalo veneziano, non conta soltanto la meta, ma lo sguardo con cui la raggiungiamo. Spesso è proprio nei dettagli più silenziosi che si nasconde la meraviglia. Tra due ponti, in una pausa tra un passo e l’altro, questa porta può apparire come la pagina di un libro aperta dal caso.

La porta della Feltrina suscita interrogativi, forse da secoli, in chi la osserva. Chi la attraversava? Quali segreti custodiva? Perché fu chiusa? Non abbiamo risposte certe, ma in fondo non importa. A Venezia, anche le porte che non si aprono ci fanno sentire qualcosa. Lo fanno con la grazia delle cose dimenticate, che sanno ancora emozionare chi ha il coraggio di rallentare e osservarle.

Perché in questa città, ogni muro ed ogni mattone sono un sussurro, e ogni scorcio un invito alla meraviglia.

Cosa vedere nelle vicinanze:

Nel Sestiere di San Marco, già di suo ricco di fascino e storia, ci sono alcune piccole gemme che, visitando il Ponte Duodo, si rendono vicine e ve ne rivelo alcune: Bacino Orseolo, il Negozio Olivetti, il Balcone del Doge, il Campanile pendente di Santo Stefano da Campo Sant’Anzolo col suo Canale Segreto, la Scala Contarini del Bovolo o anche la Piscina San Moisè e il pontile dei pittori.

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In conclusione:

Nel cuore del dedalo veneziano, non conta soltanto la meta, ma lo sguardo con cui la raggiungiamo. Spesso è proprio nei dettagli più silenziosi che si nasconde la meraviglia. Tra due ponti, in una pausa tra un passo e l’altro, questa porta può apparire come la pagina di un libro aperta dal caso.

Quella porta suscita interrogativi, forse da secoli, in chi la osserva. Chi la attraversava? Quali segreti custodiva? Perché fu chiusa? Non abbiamo risposte certe, ma in fondo non importa. A Venezia, anche le porte che non si aprono ci fanno sentire qualcosa. Lo fanno con la grazia delle cose dimenticate, che sanno ancora emozionare chi ha il coraggio di rallentare e osservarle.

Perché in questa città, ogni muro ed ogni mattone sono un sussurro, e ogni scorcio un invito alla meraviglia.

In questa città ricca di misteri e di segreti, ogni vicolo nasconde un aneddoto prezioso da tramandare, e la mia missione è cercare di incuriosirvi e regalandovi, una tessera di puzzle per volta, un quadro variopinto della storia locale da un punto di vista inedito. Continuate a seguire questa rubrica e lasciatevi incantare dalle meraviglie di Venezia, un passo alla volta.

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