“Chi ha rapito Santa Claus?” 4 Dicembre – Prigione d’Ombra e il primo Umbræon

"Chi ha rapito Santa Claus?" - cover by Trarealtaesogno

4 Dicembre – Prigione d’Ombra
e il primo Umbræon

un volto di un'ombra che spia i protagonisti attraverso gli specchi

Patty fece nuovamente capolino attraverso una feritoia tra le pietre del muro della cella, annusò l’aria e si guardò intorno intimorita, previdente e scaltra. Santa era sempre lì, ma ora leggermente riverso sulla sedia a cui era vincolato, era caduto in un sonno profondo, di certo figlio di uno stato di spossatezza estrema. Patty trasse un respiro profondissimo e zampettata dopo zampettata riuscì a risalire lungo la caviglia, poi la coscia ed infine giungere sulla spalla di Santa. Guardò giù, resa irrequieta dalla inconsueta altitudine, amava infatti stare rasoterra, fianco muro, altezza piedi umani, non oltre. Prese coraggio e, dopo un profondo respiro, squittì per attirare l’attenzione. Lo fece una, due, tre volte. Niente. Patty si fermò, esitando, ancora un istante su quella spalla, il cuore, seppur minuscolo, le batteva furiosamente dentro al petto come una tempesta. Dopo l’ennesimo sospiro profondo, tentò un approccio diverso e sussurrò: “Ehi omone… svegliati,” squittì piano, con un tono più dolce che deciso, cercando di non farlo sussultare. Nulla. Provò ancora, questa volta sfiorandogli accidentalmente la folta barba bianca e la gota destra con i suoi baffetti sottilissimi: “Hey, va tutto bene? Cos’hai fatto per essere condotto qui?” Il suono, così minuto e timido, sembrò riuscire nell’intento di penetrare nel torpore di Santa. Lentamente, dapprima un battito di palpebre, poi un respiro più profondo… il sonno si fece meno pesante. Spaesato, aprì gli occhi e la guardò. Le rispose: “Se tu, curiosa come sei, avessi visto il mio arrivo e chi mi ha qui condotto, ora sapremmo entrambi ogni cosa, senza la necessità di parlarne. Ma non ti devo, né voglio, offrire la mia frustrazione per la condizione che mi affligge. Sento di potermi fidare di te; vorrei conoscere però prima il tuo nome, creaturina dal cuore impazzito.” Patty rabbrividì leggermente, non per paura, ma per l’emozione di sentirsi chiamata direttamente in causa, nessun prigioniero mai l’aveva degnata d’attenzione, nemmeno di un cenno o uno sguardo. Guardò così verso quel volto segnato, gentile e ormai sveglio. Poi di nuovo verso la barba bianca, come se cercasse conferma che non stesse sognando. “Mi… mi chiamo Patty,” squittì infine, la voce appena più alta, ma ancora tremante, “e… vivo qui da tanto tempo, talmente tanto da non riuscire a ricordare quando tutto sia iniziato… Dei tanti, non ho mai incontrato nessuno come te. Sembri fatto di luce.” Fece una piccola pausa, come per raccogliere il coraggio di aggiungere ciò che le pesava sul cuore. “Non so chi ti abbia portato qui… nessuno è mai stato in grado di vederlo, si dice che un volto non ce l’abbia ma… se vuoi, posso… posso aiutarti a capire dove siamo e cosa succede.” Un fremito di speranza attraversò gli occhi di Santa, che inclinò leggermente la testa, osservando la piccola creatura con un misto di curiosità e dolcezza. Patty si accorse del silenzio attento e continuò, un po’ più sicura: “Non voglio mettermi nei guai… ma… tu non mi faresti del male, vero? Io mi sto fidando di te, dimmi che non mi sto cacciando in un guaio” Santa sorrise lievemente, come se le sue parole fossero state il primo vero segnale di fiducia tra loro e sussurrò con un filo di voce, interrotta qui e lì dalle emozioni che lo stavano attraversando: Io sono quella entità che rappresenta e ha salvato il Natale, raccogliendo i 25 ingredienti della luce. Io sono Santa… Claus”. Patty sobbalzò per via dell’improvvisa rivelazione, il cuore minuscolo che le batteva nuovamente come l’urlo di mille tamburi impazziti: lo scossone la fece scivolare, e con un balzo disperato si aggrappò a un ricciolo della folta barba di Santa per non cadere. Il vecchio sorrise, sentendo un lieve pizzichio; il suo sguardo gentile calmò il senso di paura della piccola creatura. Per un attimo tutto parve sospeso: il fruscio dei baffi, il calore della stanza, un respiro a due. Poi, come in un respiro profondo, la cella parve distendersi, e una nebbia sottile iniziò a serpeggiare sul pavimento, mescolandosi alle ombre del fuoco. La stessa nebbia, sospesa nel tempo e nello spazio, sembrava farsi strada anche altrove — tra le calli e i sottoportici di Venezia — dove il sussurro di un vento umido accarezzava le fondamenta delle case e le lanterne, strette tra le mani di Krampus e Rudolf, riflettevano una luce tremula sull’acqua di condensa dei vetri. Là, Artemisia avanzava sicura tra le pietre fredde, Elio tra le braccia a far le fusa. Nessuno lo capì, ma ogni suo passo riecheggiava anche nella piccola cella dove Patty si era aggrappata alla barba di Santa, come un ticchettio impercettibile. Rudolf, lontano ma connesso a Santa da quel filo invisibile, osservava le parole e i segni del primo paragrafo che stava traducendo dal tomo oscuro. Un ponte già esisteva tra i due mondi, ma nessuno di loro aveva ancora gli strumenti per scoprirlo. Un respiro collettivo attraversò la scena: un istante in cui la cella e Venezia sembrarono fondersi, e la missione, pur divisa nello spazio, fluiva come un unico corso di luce ricercata e ombra manifesta. Artemisia si voltò verso il gruppo con una precisione che la sua cecità rendeva miracolosa e disse: “Dunque, Rudolf, sei sicuro di aver compreso che si può tradurre solo un capitolo per volta e che in questo si dice di dover andare verso il sottoportico che ti fa chinare per attraversarlo?” E lui, con tono fermo: “Sì, Artemisia. C’è un passaggio nel testo ed è chiaro… parla di un varco tanto basso che solo chi si piega può attraversarlo. Non ne esiste uno più basso, a Venezia. Ti viene in mente qualcosa?” e lei: “Zurlin! lì per passare alla corte interna bisogna per forza chinarsi, è il più basso di tutta Venezia con poco più di 160 cm di altezza!”. Krampus mentre uscivano dalla soglia della casa sogghignò, quasi compiaciuto, Artemisia lo percepì e gli si rivolse così: “E tu, perchè ora ridi?” e lui: “Perchè sono alto quasi due metri, cosa pensi? Che per me sia un comodo passaggio quello? Non essere tonta!” e rise profondamente. Rudolf riportò tutti alla calma e, dopo aver carezzato Elio, chiese ad Artemisia, la bussola spirituale del sodalizio, di condurli a quel sottoportico. Artemisia avanzava come se le calli le sussurrassero i loro segreti: ogni pietra e ogni mattonella le parlavano come se fossero la loro guida più fedele. Il gruppo la seguiva, incerto a tratti, mentre lei piegava il corpo in curve impercettibili, sfiorando i muri con le mani, catturando e restituendo la memoria nascosta della città e ogni tanto facendo degli strani segni nell’aria. Le lanterne di Krampus e Rudolf tremolavano disegnando riflessi e ombre che danzavano sui muri scrostati. Sembrava che Venezia stessa le tendesse la mano per guidarla. Il gruppo, seguendola, imparava a muoversi in silenzio, a piegarsi, a lasciarsi guidare da un filo invisibile che collegava le ombre della città alla capacità di dare fiducia. Finalmente raggiunsero Campo Ruga, lì dove faceva capolino il sottoportico più basso della città. Artemisia fu la prima, con Elio tra le braccia ad entrare, poi Rudolf, Krampus preferì restare fuori, in attesa, evitando di incastrarsi là sotto. Quando, attraversando il sottoportico tutti accucciati, giunsero nella Corte Zurlin, il gruppo esitò, chi con gli occhi rivolti ai dettagli più evidenti: archi, mattoni umidi, un pavimento irregolare, chi su altro. Artemisia si fermò di colpo, inclinando leggermente la testa, sembrava dialogare con ogni cosa. Disse: “Qui… c’è qualcosa,” sussurrò, quasi per sé, e le sue dita indicarono un angolo, dove due travi tarlate e antiche si incrociavano in un abbraccio di protezione. Un velo di polvere e muschio celava ciò che altrimenti sarebbe stato immediatamente visibile. Artemisia piegò il corpo, sfiorò con la punta delle dita una superficie liscia: uno specchio, ma non sembrava uno qualunque. L’immagine di lei riflessa era perfetta, dava l’impressione che il suo riflesso potesse vedere, eppure agli altri invece mancava qualcosa: un dettaglio “rubato” solo a chi aveva tutto. Lei non potè notarlo, ma sentì il loro sbigottimento. Rudolf appariva senza mani, Elio senza coda, lei, appunto, pareva vedente. Artemisia parlò: “Sento un’energia oscura provenire da questo manufatto” e Rudolf: “Sì, un’energia mai sentita, pura tenebra e forza”. I tre uscirono dalla corte e tornarono, superando il sottoportico, vicino a Krampus che urlò: “Lo avete trovato! Bravissimi”. Fu in quell’istante, quando lo specchio fu perpendicolare a Krampus, che tale oggetto parve costituito di fumo e fuliggine e palesò un volto che, dal di dentro, guardava fuori. Krampus allora estrasse dal suo mantello il bastone con la stella di ghiaccio la quale, una volta riflessa, fece bruciare da dentro lo specchio che, come per magia, implose in sé stesso silenziosamente lasciando al suolo un residuo sferico, una sorta di ossidiana arcobaleno. Rudolf si avvicinò a piccoli passi, Artemisia disse: “Ho sentito il male concentrarsi e poi scomparire grazie Krampus”, gli occhi di lui brillavano un poco di più rispetto a prima o forse era il riflesso di una lanterna, il tutto mentre Rudolf, con una modesta sacca di juta, raccolse quella sfera e disse: “Sento che questi Umbræon celano dei segreti, potrebbero essere la chiave per salvare Santa”. Sospirarono, consapevoli che forse si trattava solo dell’inizio, dirigendosi in fila indiana verso casa di Artemisia per capire cosa riservava loro il secondo capitolo di quel tomo oscuro, tutto ancora da tradurre.

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